/Data
28.11.2020
/Titolo
La seconda ondata dello smartworking
/Autore
Annalisa Magone
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/Tag
innovazione sociale, no profit, tecnologia, terzo settore
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Ieri Lorenzo De Michieli ha parlato di una certa mano robotica costruita al laboratorio che dirige, Rehab, nato da una partnership fra IIT di Genova (cioè il maggior istituto di ricerca tecnologica applicata del paese) e INAIL (cioè la più maggiore istituzione assicurativa per i lavoratori italiani). Ebbene questa mano – che si vede nella fotografia di sopra – è stata costruita con l’aiuto dei designer, per renderla più bella e dunque più accettabile a chi deve subirne l’impianto, per esempio dopo un gravissimo incidente.
Una circostanza – la ricerca della forma estetica in rapporto alla funzionalità – che può suggestionare molto, anche se in verità non è nuova nel mondo della tecnologia applicata all’industria.
Anni fa (era il 2015), quando con Tatiana Mazali aprimmo il capitolo di studi sull’Industria 4.0, avemmo l’occasione di visitare per la prima volta l’Avio Aero di Rivalta. Di questa impresa si conosce oggi meglio il piccolo stabilimento di Cameri, presso Novara, dove è attivo un processo industriale di straordinaria importanza per il futuro della nostra industria: si producono componenti per turbine in additive manufacturing.
Lo stabilimento di Rivalta è tutta un’altra cosa, per dimensioni, processi, risorse umane impiegate. In quell’anno, nella storica fabbrica che fu della Fiat e oggi fa parte del colosso General Electric, si vedevano già gli effetti della trasformazione tecnologica e organizzativa indotta dall’industria 4.0. Ricordo in particolare un’area del vasto capannone dove lavorava una unità di nuova concezione – una macchina polifunzionale che in pratica condensava quasi un’officina per le lavorazioni meccaniche.
Non notarla era impossibile perché, in buona sostanza, era molto bella – bianca e nera con una sfavillante consolle, circondata da una officina in larga parte ancora (e per poco) tradizionale. Nel corso di quella visita noi capimmo molte cose sulla trasformazione in atto e sul modo in cui la fabbrica sarebbe cambiata in un ambiente diametralmente opposto a quello rappresentato nella nostra antiquata cultura iconografica. Del resto, a parità di condizioni, se un tornio a 6 assi è più bello di un altro, per quale ragione non preferirlo?
Questi lampi mi attraversavano la memoria ieri pomeriggio, mentre ascoltavo De Michieli e gli altri ospiti al talk organizzato da DiverCity, magazine specializzato nel racconto di come nella grande impresa cresca l’attenzione ad assumere persone, non lavoratori.
I progetti ideati e realizzati dalle imprese sul tema sono numerosi e, come sempre da noi, non trovano un luogo in cui rappresentarsi come massa critica… se si escludono iniziative associative o editoriali private come appunto DiverCity. Stando a quel che si diceva ieri, il punto di massima attenzione nel 2020 è, come si poteva immaginare, lo smartworking. Dallo scorso marzo, chi studia i processi sociali ha assistito alla più colossale sperimentazione che avrebbe potuto immaginarsi; una ricerca empirica che si è costruita da sola, coinvolgendo una massa di lavoratori esorbitante.
In questo orizzonte la tecnologia non avrebbe giocato per escludere, ma per ricomprendere, tenere legati al progetto aziendale. Certamente ogni azienda ha agito secondo il proprio modello; certamente c’è stata la necessità di adeguare dall’oggi al domani capitale tecnologico, strumenti digitali e neuroni; certamente ci sarà chi ha patito e chi si è trovato perfino meglio; certamente non è automatico mettere a fuoco il punto nodale – che lo smartworking non è un problema di 5G né una misura di conciliazione, ma un dilemma di disegno organizzativo e di leadership.
È molto difficile portare un ufficio – poniamo, quello amministrativo – in smartworking, se i documenti stanno nei faldoni (dove sono “più” sicuri e a portata di mano) e se il capufficio è abituato ad affidare i compiti a vista: poiché tutti sono intercambiabili e nessuno indispensabile, si decide chi si occuperà di un certo incartamento a seconda del tempo disponibile di ciascun impiegato, misurato all’impronta. Il modello manageriale in assoluto più diffuso in Italia.
Nel corso della “prima ondata di smartworking”, in primavera, se ne sentirono di tutti i colori, comprese aziende che caricarono sulle auto dei dipendenti i PC desk perché non avevano portatili, e altre che obbligarono gli impiegati a svolgere il turno in salotto con la webcam accesa, per essere ben certi che si attenessero all’impegno richiesto…. orario, non di obiettivo. Ammetto di non sapere quanto una simile aneddotica sia fondata, ma suona verosimile. L’ingresso nella “seconda ondata di smartworking” dovrebbe consentirci di mettere a frutto alcuni insegnamenti.
Per esempio che la tecnologia non è tutto – l’hanno spiegato a chiare lettere tutti gli ospiti – Angela Amodio (Group Diversity & Inclusion Director a Prysmian), Federico Bianchi (Founder di Smartworking.srl), Francesco D’Arrigo (Responsabile Talent Acquisition a Synergie Italia), Antonia Del Vecchio (Disability Manager a Synergie Italia), Alessandra Sinibaldi (Market Access & Regulatory Affairs Director a Janssen), moderati da Valentina Dolciotti (Editorial Director per DiverCity Mag) – ma sicuramente aiuta. Che il risultato è un sistema non a caso descritto come socio-tecnico, ovvero un modello organico nel quale i due livelli si influenzano a vicenda e finiscono col non essere più districabili. Che includere significa favorire la partecipazione sui luoghi di lavoro, ma partecipare non significa solo coinvolgere.
Coinvolgere è un movimento dall’alto, è l’azione del management che propone un modello di comportamento, un cambio di rotta o per contro un rafforzamento delle linea, e mette in atto una serie di meccanismi di illustrazione finalizzati a far comprendere e accettare la proposta da tutta la macchina produttiva. Partecipare significa offrire il proprio contributo al processo di cambiamento da operare insieme, ovvero il management si sente disposto a discutere con la comunità – perché l’azienda è una comunità; ordinata ed efficiente, ma sempre senziente. Significa in definitiva che il management stesso, all’atto della verifica di una sua intuizione, è disposto a tornare sui propri passi se venisse fuori che la proposta non funziona. Quindi non c’è coinvolgimento né partecipazione se non si coltiva il pensiero critico come asset di gestione dei processi di impresa.
La tecnologia e le sue potenzialità realizzative, in tutto questo può fare una fondamentale differenza, anche a nostra insaputa.
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